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venerdì 15 luglio 2016

prima persona plurale

La coniugazione dei verbi della lingua greca possiede: il singolare, il plurale, e anche il duale. E' una delle prime cose che fa sorridere gli spaesati allievi delle quarte ginnasio, rendendoli - oltre che terrorizzati - fieri al contempo di poter trattenere tra le dita un dettaglio misterioso ed un poco esotico, la chiave arrugginita di una stanza che solo loro - e non i compagni che scelsero la via più facile dello scientifico-tecnologico - potranno, con un po' di pazienza, visitare.

Il duale, a dire la verità, non è poi nulla di così misterioso né soprattutto di esotico: puzza un po' di calzini usati (si usa per i due piedi infatti) e ha il sapore di un melone senza sapore; i Greci lo adoperavano con tutte quelle entità che erano sempre in paio: le mani, i re di Sparta, i gemelli, ma il suo impiego, come prevedibile, è andato lentamente dissolvendosi e già in antico - quando si tratta di femmine, soprattutto - finiva per subire la concorrenza del plurale.


Tinni, in questi ultimi giorni, ha capito perché. Perché tifa plurale. Perché le piace di più dire noi che dire noi due. Perché la prima persona plurale è la più bella della coniugazione verbale.


A capo chino su una versione di Platone, ieri, insieme al suo alunno bravissimo che deve solo rispolverare un po' di greco dopo un semestre canadese, si rompeva la testa alla ricerca del modo più adatto di rendere un'espressione un po' libera, di quelle intraducibili letteralmente, di quelle che cerchi sul vocabolario, e che provi ad incastrare nel tuo testo come un pezzo di puzzle non perfettamente coincidente. Tinni e il suo bravissimo allievo avevano anche un vocabolario un po' renitente in proposito, quell'antico vocabolario scritto tutto uguale da perderci gli occhi, in una vecchia edizione ingiallita, per decifrare la quale quattro occhi non erano forse abbastanza. Pensavano di aver trovato un buon modo, un sistema abbastanza coerente di rendere il tutto, e frase dopo frase, in discesa dopo quel nodo più difficile, erano arrivati al termine del brano. Ed è stato allora che Tinni ha tirato fuori un'edizione con testo a fronte dell'Apologia di Socrate e dopo una veloce scorsa ha reperito il passo in questione per controllare e correggere le eventuali sviste traduttive. Tutto bene, qui è un po' libera ma simile, lì è come pensavamo, qua è uguale... fino al punto nodale, fino a quell'espressione un po' gergale, con doppia negazione più congiuntivo indipendente: e Savino, il traduttore ufficiale della casa editrice BUR, aveva reso la frase completamente al contrario. E' sì difficile scampare alla morte, ma lo è molto di più scampare alla malvagità
Così traduceva l'inviolabile luminare; e così voleva correggere Tinni, nel suo consueto impeto di sottomissione all'autorità. 



Io preferisco quella che abbiamo fatto noiHa asserito senza il minimo dubbio il diciottenne neopatentato seduto al suo fianco. Ha più senso, perché Socrate ha appena detto che scampare alla morte è facile, ne ha anche portato delle prove (ed è vero: ha appena detto che in guerra, per esempio, basta gettare le armi e implorare il perdono degli inseguitori); quindi non può dire all'improvviso che è difficile
Sì, dai, io nel mio quaderno scrivo la nostra.

E già prima di essere rientrata a casa, prima ancora di aver consultato qualche sito internet, di aver ritrovato il capitolo XXIX e di essersi resa conto che, su quattro traduzioni reperite, quattro presentavano non è difficile scampare alla morte, Tinni, in auto, pensava che no, un greco non avrebbe mai reso quel nostra con un limitante duale, perché eravamo stati a quel tavolo in molti più che due: c'eravamo almeno io, Tommaso, Lorenzo Rocci e Socrate. E, forse, anche quel rompiballe di Platone.
Ed era per questo che avevamo capito giusto.



Gli scaffali di una sporca e polverosa biblioteca li può riordinare e ripulire anche solo una persona, se poco più in basso, sotto alla scaletta che la sorregge traballando, ci sono due amici che parlano - tra loro, e anche un po' con lei - di Dante: e si dirà, alla fine, che abbiamo fatto un bel lavoro.

Se si arriva ospiti in un monastero splendido poco sopra il mare, e molto dentro ai vigneti, e si ha una gran fame dopo la coda in autostrada, possiamo preparare una cena frugale e buonissima: una sorella ai fornelli, l'altra a chiacchierare con chi le ha ospitate - due novelle Marta e Maria in quel di Romagna - e le bocche a goderla saranno molto più di due.

Infine - ma solo per oggi - quando Tinni e Niculet si dilettano a fare il cavatappi, in qualunque condizione marittima esse si trovino - e non importa che sotto, ad aprire gli occhi, non si veda un accidente, loro lo fanno in sincrono, e la cosa le fa sempre ridere - non sono mai solo Tinni e Niculet, c'è sempre anche Albert alle loro spalle che ridacchia e pensa tra sé e sé ma guarda a 'ste due prof cosa sono riuscito ad insegnare

Evviva il noi, quindi, anche quando apparentemente ci sono solo quattro mani, due teste e, magari, un vecchio vocabolario.

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